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Il tesoretto di San Michele Maggiore a Pavia. Un riesame alla luce di recenti acquisizioni Premessa I tre oggetti d’argento che compongono questo piccolo tesoro – un piatto a baccellature radiali su alto piede (fig. 1); un cucchiaio con piattello emisferico e manico tornito (fig. 2); un frammento sagomato a forma di stelo (fig. 3) – furono scoperti nel 1968 durante i lavori per un nuovo impianto di riscaldamento della celebre basilica pavese di San Michele Maggiore, che avevano richiesto lo scavo di un’area di estensione limitata, 6 x 6 m di superficie (PERONI, 1972): vennero alla luce nel terreno libero da costruzioni compreso fra il presbiterio e il transetto destro, a una quota di -1,20 m rispetto al livello pavimentale interno della chiesa, al di sotto di una tomba a cappuccina di rozza fattura posta a una quota di -1,00 m (fig. 4). L’indagine, condotta fino a raggiungere il terreno vergine (-2,10 m di profondità) non restituì altro che frammenti ceramici datati all’età romana, senza offrire ulteriori elementi per precisare la cronologia di occultamento dei tre argenti, dato che la tomba a cappuccina poteva essere genericamente datata fra la tarda Antichità e il XII secolo, mentre la stratigrafia del sito risultava fortemente compromessa dalla costruzione (nel 1402), e poi dalla demolizione (nel 1870) di una sacrestia annessa alla basilica (PERONI, 1972, pp. 157-160). Non furono trovate tracce di un eventuale contenitore che, se esistito, doveva essere in materiale deperibile, come legno o stoffa. Dopo una prima pulitura dei tre oggetti, effettuata poco tempo dopo la scoperta, nel 1977 il piatto fu restaurato a cura della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, con il fissaggio dei frammenti staccati del piede, per essere esposto in modo permanente nella Sezione archeologica dei Musei Civici di Pavia, assieme al cucchiaio e al frammento. Adriano Peroni, testimone del ritrovamento e primo editore dei tre oggetti, escluse che essi appartenessero a un corredo tombale, in considerazione del loro stato più o meno frammentario e lacunoso, e li interpretò come beni sepolti per il puro valore del metallo in un momento non meglio precisabile, fra l’alto medioevo e l’età moderna. Lo studioso, oltre a fornire una dettagliata descrizione dei manufatti e a proporre alcuni confronti tipologici, datò il piatto e il cucchiaio entro il V secolo d. C., individuando su basi stilistiche il luogo di fabbricazione nel Mediterraneo occidentale; per il frammento di stelo, invece, egli suggerì una cronologia leggermente più alta, fra il IV e il V secolo, senza però escludere del tutto un’età decisamente più tarda, bassomedievale o persino rinascimentale, a causa della sinuosa sagomatura dell’elemento centrale. La presenza di croci niellate sul cucchiaio e sul piatto indussero Peroni a proporre, come ipotesi da verificare, un uso liturgico di questi manufatti, legato alla consacrazione e alla distribuzione dell’Eucarestia, e quindi una verosimile appartenenza al tesoro di vasa sacra della contigua chiesa di San Michele (PERONI, 1972, pp. 160-169; cfr. anche PERONI, 1984, pp. 344-345). I non molti studiosi che, negli anni successivi, si sono occupati del tesoretto hanno sostanzialmente accettato questo quadro interpretativo, alcuni insistendo sulla funzione liturgica degli oggetti (così MONTEVECCHI, 1988, p. 141; HUDSON, 1990; DI BERARDO, 2000, pp. 456-458; e BALDASSARRI - FAVILLA 2004, pp. 163-175), altri ammettendo come più plausibile un impiego domestico (così BIERBRAUER, 1975, pp. 181-182; BIERBRAUER, 1978, p. 222; BARATTE, 2002, pp. 62 e 68-69; AIMONE, 2010, pp. 199202; e AIMONE, c. s.). Due tesori risalenti al V-VI secolo venuti alla luce in Italia negli anni Trenta del Novecento, quello di Desana in Piemonte (VC), e quello di Canoscio in Umbria (PG), comprendono manufatti argentei strettamente confrontabili con il cucchiaio e con il piatto pavesi: il recente riesame di entrambi ha permesso di precisare, per i rispettivi pezzi, le cronologie, i contesti di produzione, nonché gli ambiti di utilizzo (cfr. rispettivamente AIMONE, 2010; M. AIMONE, Il tesoro di Canoscio, in Aurea Umbria. Una regione dell’Impero nell’era di Costantino. Catalogo della mostra, Spello, Palazzo Comunale, 29 luglio - 9 dicembre 2012, a cura di A. BRAVI, Viterbo 2012, pp. 184-189, e AIMONE, c. s.), offrendo l’occasione di aggiornare con dati e confronti inediti la conoscenza dei reperti di San Michele Maggiore, la cui importanza storica, artistica e archeologica, non certo sottovalutata da Peroni, risulta ora ulteriormente argomentata. Inoltre, grazie alla riedizione nel decennio passato di un terzo significativo complesso di argenti, del medesimo orizzonte cronologico, quello scoperto a Cartagine alla fine del XIX secolo e comprendente un set di caratteristici cucchiai con piattello semisferico (F. BARATTE - J. 11 a) b) a) c) Fig. 2 – Tesoretto di S. Michele Maggiore, cucchiaio: a) faccia superiore; b) sezione (disegno M. Aimone); c) faccia inferiore. b) c) Fig. 1 – Tesoretto di S. Michele Maggiore, piatto: a) faccia superiore; b) sezione; c) faccia inferiore (disegno M. Aimone). 12 LANG - S. LA NIECE - C. METZGER, Le trésor de Carthage: contribution à l’étude de l’orfèvrerie de l’Antiquité tardive, Paris 2002), il tesoretto pavese può essere meglio collocato nel quadro delle produzioni di argenterie mediterranee, una tipologia di manufatti di lusso diffusa e apprezzata con continuità dalle élite tardoromane, barbariche e bizantine fra il Tardoantico e l’alto Medioevo tanto per il valore intrinseco del metallo, quanto per le raffinate lavorazioni che l’argento consentiva di ottenere (F. BARATTE, Il vasellame prezioso nella tarda antichità: il tesoro di Kaiseraugst ed il suo contesto, in Il tesoro nascosto. Le argenterie imperiali di Kaiseraugst. Catalogo della mostra, Roma, Palazzo dei Conservatori, 3 dicembre 1987 - 14 febbraio 1988; Milano, Palazzo Reale, 5 marzo - 30 aprile 1988, Milano Roma 1987, pp. 13-39; M. MUNDELL MANGO, Silver Plate among the Romans and among the Barbarians, in La noblesse romaine et les chefs barbares du IIIe au VIIe siècle, Colloque du Musée des Antiquités Nationales St.-Germain-en-Laye, textes réuni par F. VALLET - M. KAZANSKI, Rouen 1995, pp. 77-88; F. BARATTE, Observations sur la vaisselle d’argent et ses possesseurs à la fin de l’Antiquité, in Schede degli oggetti 1. Piatto (fig. 1) Arte tardoromana di area italica. Piatto a baccellature su alto piede, con bordo rialzato e sagomato. Numero d’inventario OR 67 / St. 9946. Argento fuso entro matrice e rifinito a martellatura; lamina d’argento ribattuta e sagomata; saldatura delle parti componenti l’oggetto; decorazioni incise nel metallo e parzialmente niellate. Diametro originario: circa 18 cm (attuale 13,5 cm); profondità del piatto: 1,5 cm; altezza del piede: circa 2,7 cm (i frammenti ricomposti non combaciano del tutto); peso: 219 g (allo stato attuale). a) b) Fig. 3 – Tesoretto di S. Michele Maggiore, frammento: a) sezione (disegno M. Aimone); b) faccia inferiore. “Annals de l’Institut d’Estudis Gironins”, XXXVI, 1996, pp. 63-79; R.E. LEADER-NEWBY, Silver and Society in Late Antiquity. Functions and Meanings of Silver Plate in the Fourth to Seventh Centuries, Aldershot - Burlington 2004; F. BARATTE, Silver Plate in Late Antiquity, in Late Roman Silver. The Traprain Treasure in Context, edited by F. HUNTER - K. PAINTER, Edinburgh 2013, pp. 57-73). Sulla base dei nuovi dati e dei migliori confronti disponibili, si possono precisare alcuni aspetti del tesoretto pavese, finora non completamente chiariti, relativi allo stile, alla cronologia, alla funzione e ai possibili centri di origine. Il piatto è stato parzialmente ricomposto da otto frammenti maggiori. Il contenitore orizzontale consiste in un disco leggermente concavo e con uno spesso bordo rialzato: è suddiviso in trentuno baccellature radiali, semicircolari in sezione, che terminano in altrettanti archetti lungo il bordo (a cui conferiscono un caratteristico profilo ondulato) e che racchiudono uno spazio centrale piano su entrambe le facce. Il piatto è montato su un alto piede in lamina di forma troncoconica, dall’estremità inferiore inspessita in modo da offrire maggiore stabilità all’oggetto. Al centro della faccia superiore, nello spazio piano, è incisa una croce latina dai bracci patenti, terminanti con tratti retti sporgenti; la circonda una corona fogliacea fortemente stilizzata, chiusa alla base da un nastro annodato e ornata alla sommità da un fiore di quattro petali; croce e corona sono entrambe niellate (fig. 5). Al centro della faccia inferiore spicca un incavo tondo, non perfettamente concentrico a una spessa linea circolare incisa. Le superfici del piede sono lisce, fatta eccezione per una linea sottilmente incisa, parallela al profilo inferiore. Mentre il piede è stato lavorato ribattendo e modellando su tassetti una lamina d’argento rettangolare (si riconoscono ancora deboli tracce della martellatura), il contenitore è stato fuso entro una matrice sagomata, come attestano lo spessore del metallo (circa 2 mm lungo il bordo sagomato) e, soprattutto, le caratteristiche imperfezioni delle superfici, specialmente sulla faccia inferiore, polita con cura minore rispetto a quella superiore. I solchi della croce e della corona fogliacea, nonché la linea decorativa lungo il bordo del piede, sono stati incisi utilizzando ceselli con punte di spessore differente, come dimostrano le impronte in negativo chiaramente visibili sulle superfici retrostanti. I due elementi del piatto sono stati congiunti mediante saldatura, dopo aver ricevuto i rispettivi apparati decorativi: i segni di limatura ancora 13 Fig. 4 – Pavia, presso la chiesa di S. Michele Maggiore: veduta dello scavo con la tomba a cappuccina (su concessione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia). evidenti lungo l’attacco del piede rivelano in quale modo le scorie del saldante siano state eliminate. La mancanza di ampie porzioni (non rinvenute nel terreno) e lo stato frammentario al momento del ritrovamento, con il piede staccato, provano che l’oggetto era stato sepolto già danneggiato, e del resto tracce di usura e consunzione si osservano in più punti sotto la patina brunita. Fra gli argenti tardoantichi e protobizantini noti, questo 14 piccolo ma elaborato piatto ha un unico confronto puntuale per la sua forma complessiva (fig. 6): un esemplare ritrovato nel 1953 a Martynova, nel territorio russo degli Urali settentrionali, prodotto a Costantinopoli al tempo dell’imperatore Costante II (641-668), come indicano i bolli di controllo impressi sul retro (A. BANK, Byzantine Art in the Collections of Soviet Museums, Leningrad 1977, p. 284; scheda in Spätantike und frühbyzantini- Fig. 5 – Tesoretto di S. Michele Maggiore, piatto: dettaglio della corona e della croce niellate. Fig. 6 – San Pietroburgo, Ermitage: piatto di Martynova (da: Spätantike und frühbyzantinische Silbergefäße cit., fig. 108). sche Silbergefäße aus der Staatlichen Ermitage Leningrad. Katalog der Ausstellung, Berlin, Staatliche Museen, Dezember 1978 - März 1979, herausgegeben von A. EFFENBERGER - B. MARŠAK - V. ZALESSKAJA - I. ZASECKAJA, Berlin 1978, n. 24 pp. 180-181). Anche la decorazione niellata con croce iscritta in una corona fogliacea rimanda direttamente a modelli creati e diffusi in area bizantina, ma la cui fortuna risale a più di cento anni prima rispetto al piatto di Martynova, tra la fine del V secolo e la metà circa del VI (A. EFFENBERGER, Silbergefäße in der Spätantike und in der frühen Byzanz, in Spätantike und frühbyzantinische Silbergefäße cit., pp. 60-61 e 73; LEADER-NEWBY, Silver and Society in Late Antiquity cit., pp. 177-180; catalogo ragionato dei pezzi noti in E. CRUIKSHANK DODD, Byzantine Silver Stamps, Washington 1961, completato in Spätantike und frühbyzantinische Silbergefäße cit.). Considerando che l’esemplare pavese non reca sulla faccia inferiore i cinque bolli di controllo, che i funzionari imperiali facevano apporre ai manufatti in argento lavorati nelle regioni orientali del Mediterraneo, e alla luce della schematica, antinaturalistica resa della corona niellata (così lontana dai modelli autenticamente bizantini), si deve concludere che il piatto sia stato realizzato in Italia, su imitazione di pezzi importati sicuramente diffusi nella penisola fra l’età ostrogota e il restaurato dominio di Giustiniano: testimonia l’arrivo di tali manufatti un piatto decorato in modo analogo scoperto nel 1994 al largo del porto siciliano di Kaukana (SR), la cui provenienza costantinopolitana è confermata dai bolli in lettere greche impressi sul retro (G. DI STEFANO, Tesori e argenti da Camarina e Caucana. Contributo alla Forma maris Camarinae (1991), in Dioniso e il mare. Atti della VI rassegna di archeologia subacquea (Giardini Naxos, Museo Archeologico, 25-27 ottobre1991), a cura di M.C. LENTINI, Messina 1994, pp. 6-9). Anche il set omogeneo appartenente al tesoro di Canoscio, composto da due piatti e da un bacile ornati con croci latine entro corone di foglioline tonde o appuntite (fig. 7), è stato riconosciuto come prodotto di abili maestranze italiche, attive a Ravenna o forse nella stessa Roma (da ultimo AIMONE, Il tesoro di Canoscio cit., nn. 3, 5 e 6, pp. 186187, con bibliografia a p. 189): l’origine nella penisola di questi oggetti è confermata, oltre che dall’assenza dei bolli di controllo – una costante nelle argenterie di probabile produzione italica riferibili al V, VI e VII secolo –, dalla modifica dei dettagli secondari nei decori niellati, come le terminazioni a ricciolo dei bracci delle croci, con rimandi diretti a modelli ravennati (cfr. E. RUSSO, Studi sulla scultura paleocristiana e altomedievale. Il sarcofago dell’arcivescovo Grazioso in S. Apollinare in Classe, in “Studi Medievali”, s. III, 15, 1974, pp. 38-42; e R. FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia dal VI all’XI secolo, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 354 e 410). La datazione dei pezzi di Canoscio può essere fissata non molto dopo la prima metà del VI secolo, periodo di maggiore diffusione in area bizantina delle corone fogliacee con nastro e fiore (cfr. le schede in CRUIKSHANK DODD, Byzantine Silver Stamps cit., pp. 51-91): per questo, nonostante il pun15 Fig. 7 – Città di Castello, Museo del Duomo: due piatti e catino del tesoro di Canoscio (disegno M. Vercellotti). tuale confronto con il piatto di Martynova, una cronologia alta sembra preferibile anche per l’esemplare pavese, essendo difficile ammettere una ripresa tanto posteriore del tipo decorativo centrale, ormai sostituito in ambito costantinopolitano da elementi ornamentali differenti, come la rosetta sbalzata a rilievo presente sul piatto russo (EFFENBERGER, Silbergefäße in der Spätantike cit., pp. 59-61 e 7175). Si può piuttosto pensare a una fortuna prolungata della tipologia di piatto a baccellature, fino al VII secolo inoltrato, come evoluzione degli esemplari con più minute scanalature radiali, rette o ondulate, ampiamente rappresentati in età romana imperiale, tardoantica, e ancora protobizantina (fig. 19; cfr. D.E. STRONG, Greek and Roman Gold and Silver Plate, Whitstable, Kent 1966, pp. 196-197; EFFENBERGER, Silbergefäße in der Spätantike cit., pp. 59-61; BARATTE, Il vasellame prezioso nella tarda antichità cit., pp. 22-23; L. PIRZIO BIROLI STEFANELLI, L’argento dei Romani. Vasellame da tavola e d’apparato. Con contributi di M.E. MICHELI - B. PETTINAU, Roma 1991, riferimenti alle pp. 62-110; M. MUNDELL MANGO, Continuity of 4th-5th-century silver plate in the 6th-7th centuries in the Eastern Empire, in “Antiquité tardive”, 5, 1997, pp. 83-92, specialmente p. 89): il celebre “piatto di Euticius” dal tesoro di Kaiseraugst (Svizzera), della metà circa del IV secolo, è l’esempio qualitativamente più significativo di un rilevante gruppo di esem16 plari tardoantichi ornati in questo maniera (F. BARATTE, Euticius-Platte, in H.A. CAHN - A. KAUFMANN-HEINIMANN, Redaktion, Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst, vol. I, Derendingen 1984, pp. 188-193); i pezzi di Pavia e Martynova, separati da circa un secolo, sarebbero gli unici superstiti di tale sottogruppo, avente come probabile centro diffusore la stessa Costantinopoli. Anche il raro bordo sagomato trova un confronto, cronologicamente circoscritto entro i primi decenni del VI secolo, in una coppia di piccoli piatti gemelli appartenenti sempre al tesoro di Canoscio (da ultimo AIMONE, Il tesoro di Canoscio cit., n. 7, p. 187, con bibliografia a p. 189): questi due argenti, tanto raffinati nelle decorazioni quanto elaborati nelle tecniche di lavorazione, sono interpretabili come dono nuziale agli sposi Aelianus e Felicitas, menzionati dalle iscrizioni incise su di essi (STRONG, Greek and Roman Gold and Silver Plate cit., pp. 194-195; J. ENGEMANN, Anmerkungen zu spätantiken Geräten des Alltagslebens mit christlichen Bildern, Symbolen und Inschriften, in “Jahrbuch für Antike und Christentum”, 15, 1972, p. 158), e non si può escludere che il piatto di Pavia, confrontabile nelle dimensioni e nel peso con quelli (larghi 16,5 cm; pesanti 320 g ciascuno), fosse ugualmente destinato a uno scambio di preziosi secondo una consuetudine molto apprezzata fra le aristocrazie tardoromane. È significativo a questo proposito l’accenno, contenuto in una lettera del nobile Quinto Aurelio Simmaco (seconda metà del IV secolo), a un canistellum argenteum, quale dono a un affezionato amico (SIMMACO, Epistola VII, 76; cfr. A. CAMERON, Observations on the Distributions and Ownership of Late Roman Silver Plate, in “Journal of Roman Archaeology”, 5, 1992, p. 180). Neppure una funzione sulla mensa, nell’ambito del banchetto, può però essere del tutto esclusa per questo oggetto. Tra le tipologie in metallo attestate fra il IV e il VI secolo negli insiemi di argenterie finora recuperati, a cominciare dal tesoro di Kaiseraugst, si osserva una certa varietà di forme fra i piatti su alto piede, di dimensioni medio-piccole, identificabili come “alzate”, anche se per tutte è ipotizzabile un impiego per imbandire cibi di accompagnamento (verdure, uova, stufati e tortini) alle portate di carne e pesce servite su ampi vassoi (cfr. in generale N.F. HUDSON, Changing Places: The Archaeology of the Roman Convivium, in “American Journal of Archaeology”, 114/4, 2010, pp. 663-695; e M. MARTIN, The Traprain objects before hacking: the assembly compared with other late Roman hoards, in Late Roman Silver. The Traprain Treasure cit., pp. 263-273; in particolare sul tipo, cfr. STRONG, Greek and Roman Gold and Silver Plate cit., pp. 194 e 204); se il piatto di Pavia può essere facilmente accostato a queste “alzate” da mensa, è invece da escludere un suo impego, almeno primario, nella liturgia o sugli altari: nei secoli in questione, la forma delle patene per il pane eucaristico, nota da vari esemplari scoperti in tesori ecclesiastici, appare completamente diversa, priva di un alto piede ma dotata un ampio fondo piano e di un largo bordo rialzato a tesa orizzontale (M. MUNDELL MANGO, The Use of Liturgical Silver, 4th-7th Centuries, in Church and People in Byzantium. Twentieth Spring Symposium of Byzantine Studies, Manchester, 1986, edited by R. MORRIS, Birmingham 1990, pp. 245-261; LEADER-NEWBY, Silver and Society in Late Antiquity cit., pp. 85-96). Per un oggetto come questo, la croce da sola non è sufficiente a provare un impiego liturgico, dato che ricorre con frequenza anche sulla ceramica fine da mensa dello stesso periodo (cfr. ENGEMANN, Anmerkungen zu spätantiken Geräten des Alltagslebens cit.). 2. Cucchiaio (fig. 2) Arte tardoromana di area italica. Cucchiaio con profondo piattello circolare e manico tornito. Numero d’inventario OR 66 / St. 9945. Argento fuso entro matrice, rifinito a martellatura e al tornio; saldatura delle parti componenti l’oggetto; decorazioni incise nel metallo e niellate, superfici dorate a mercurio. Lunghezza complessiva: 16,4 cm; lunghezza del manico: 7,7 cm; diametro e altezza del piattello: 6,8 x 6,7 cm e 2,4 cm; peso: 116 g. Il cucchiaio, in stato di conservazione discreto, è spezzato nella parte terminale del manico: a somiglianza di altri esemplari del medesimo tipo, doveva terminare con un pomello (perduto) a cui probabilmente si congiungeva l’anellino da sospensione staccato al momento della scoperta e inserito nel punto più stretto del balaustrino, verso l’estremità libera; tale anellino, oggi irreperibile, è documentato in PERONI 1972, figg. 1-2. Nel piattello, semisferico anche se non perfettamente circolare, la superficie interna è ornata lungo il bordo da un fregio orizzontale alto 8 mm, niellato e compreso tra due fasce di linee incise e dorate (fig. 8): il campo mediano è diviso in ventidue riquadri, alternatamente romboidali e circolari, i primi contenenti elementi floreali a quattro petali appuntiti, i secondi fiori tondi dai petali a goccia in numero variabile; racemi a S occupano gli spazi di risulta, mentre il fondo è niellato e le superfici dei decori sono riempite da minuscoli solchi puntiformi. Al centro della faccia superiore, una croce latina con bracci patenti (simile a quella del piatto) è niellata e circondata da una cornice a rilievo dorata. Sulla superficie esterna, il centro del piattello è occupato da una cavità semicircolare inscritta in un solco impresso nel metallo, mentre il bordo è sottolineato da una più sottile incisione. Funge da elemento di congiunzione con il manico una tabella trapezoidale affiancata da due volute con profili di delfino (fig. 9); è ornata da un ri- quadro con un rombo iscritto, i cui spazi sono occupati da motivi floreali a giglio e a trifoglio dalle superfici fittamente puntinate, che risaltano sul fondo nero del niello; due rametti di edera, ugualmente niellati, partono dagli angoli inferiori del riquadro, snodandosi con motivo sinuoso nello spazio delle volute. Il manico è articolato in sei astragali separati da profilature sporgenti e termina con un balaustrino a cui, come ricordato, doveva congiungersi un pomello forato per l’attacco dell’anellino. Piattello, tabella e manico sono stati fusi in stampi e poi uniti mediante saldatura, dopo essere stati rifiniti al tornio: esili tracce di limatura fra piattello e tabella segnalano le linee di congiunzione, mentre il punto di fissaggio per la tornitura del piattello è ben visibile sulla faccia inferiore. Gli incavi per il niello devono essere stati scavati con un bulino dall’estremità piatta, come indicano i segni lasciati dove il materiale di riempimento è caduto; i segni circolari che campiscono o bordano i motivi floreali sono stati impressi con punzoni di diverso spessore. L’esemplare si confronta perfettamente con due cucchiai del tesoro di Desana, identici e in coppia (fig. 10; AIMONE, 2010, nn. 45-46 pp. 111-113), e con uno singolo del tesoro di Canoscio (fig. 11; AIMONE, Il tesoro di Canoscio cit., n. 24 p. 189): le differenze sono secondarie e riguardano l’articolazione del manico (con balaustrini in fila nei pezzi piemontesi) e la decorazione del piattello (iscrizioni benaugurali a Desana; il monogramma del proprietario a Canoscio), anche se nessuno dei tre presenta motivi decorativi altrettanto ricchi. Alla medesima tipologia appartengono altri tre esemplari dal tesoro piemontese, privi della tabella fra piattello e manico, ma impreziositi da niellature e dorature, nonché da inserti colorati di paste vitree e da un vasto campionario di elementi zoomorfi, floreali e geome- Fig. 8 – Tesoretto di S. Michele Maggiore, cucchiaio: particolare della decorazione entro il piattello. 17 Fig. 11 – Città di Castello, Museo del Duomo: cucchiaio tipo “ligula” del tesoro di Canoscio (disegno M. Vercellotti). Fig. 9 – Tesoretto di S. Michele Maggiore, cucchiaio: particolare della decorazione sulla tabella. Fig. 10 – Torino, Museo Civico d’arte antica: cucchiaio tipo “ligula” del tesoro di Desana (disegno C. Fossati). 18 trici (fig. 12; AIMONE, 2010, nn. 47-49 pp. 113-116): tali motivi, tuttavia, appartengono a un repertorio di forme differente da quello attestato sul cucchiaio pavese. Inoltre, un set omogeneo di nove esemplari appartiene al tesoro di Cartagine e comprende cucchiai a piattello emisferico caratterizzati, però, da manici rastremati a sezione ottagonale e da croci niellate nella tabella di congiunzione (fig. 13; BARATTE, 2002, nn. 11-19 pp. 58-62): la recente ridatazione entro i primi decenni del VI secolo si accorda con la cronologia, ora confermata, dei pezzi da Desana e da Canoscio, consentendo di associare in essa anche il cucchiaio qui in esame (BARATTE, 2002, pp. 65-69; AIMONE, 2010, pp. 199-206). Meno sicura è la funzione svolta da questi oggetti, così come sconosciuto è il nome antico (ligula, secondo S.R. HAUSER, Spätantike und frühbyzantinische Silberlöffel. Bemerkungen zur Produktion von Luxusgütern im 5. bis 7. Jahrhundert, Münster 1992, pp. 17-18, ma si tratta di una supposizione erudita senza conferma nelle fonti coeve). Il carattere domestico dei tesori di Desana, Canoscio e Cartagine, definitivamente accertato, ha portato a escludere un uso di simili cucchiai nella liturgia, uso che peraltro, in Occidente, non sembra anteriore all’anno Mille (così, con argomenti definitivi, R.F. TAFT, Byzantine Communion Spoons: a Review of the Evidence, in “Dumbarton Oaks Papers”, 50, 1996, pp. 209-238): piuttosto, il peso rilevante (fra i 79,7 e gli 88,5 g nei cinque esemplari di Desana, mentre l’esemplare di Canoscio ne pesa 103), la ric- Fig. 12 – Torino, Museo Civico d’arte antica: cucchiai tipo “ligula” del tesoro di Desana (disegno C. Fossati). MONE, 2010, pp. 199-206); avrebbero quindi avuto una funzione non dissimile da quella delle patere di età imperiale, oppure degli attingitoi presenti in tesori tardoantichi della seconda metà del IV secolo, come quello di Hoxne, in Inghilterra (fig. 14; C. JOHNS, The Hoxne Late Roman Treasure. Gold Jewellery and Silver Plate, London 2010, nn. 4261 pp. 221-224), due tipologie dalle quali questi esemplari hanno sicuramente ripreso la coppella profonda e il manico retto, oltre alle volute in forma di delfino come elemento di congiunzione (cfr. STRONG, Greek and Roman Gold and Silver Plate cit., pp. 143-145, 170 e 192-194). L’anellino all’estremità del manico è presente solo in questo esemplare di San Michele Maggiore, ma nella serie da tre del tesoro di Desana, alle estremità libere sono presenti minuscole teste di leone, nelle cui fauci avrebbero potuto trovare posto elementi di sospensione di questo tipo, utili appunto nel caso di complementi da mensa, a disposizione dei commensali, appesi a supporti posti sulle tavole (così AIMONE, 2010, pp. 204-205). L’area geografica di distribuzione, circoscritta finora all’Italia centro-settentrionale e Cartagine, suggerisce una fortuna limitata ai regni ostrogoto e vandalo: del resto, l’assenza di antecedenti diretti fra le argenterie romane e tardoantiche (pur non mancando punti di contatto con patere e attingitoi) porta a concludere che tale forma sia stata elaborata ex novo in queste due regioni, fra loro strettamente collegate per rapporti economici, commerciali e culturali, oltre che politici (AIMONE, 2010, pp. 203 e 206; e AIMONE, c. s.). In particolare, per i cinque esemplari più simili di Pavia, Desana e Canoscio, una produzione in area italica appare la più probabile, anche se alcune differenze nella tecnica di fabbricazione, così come la non perfetta corrispondenza nelle dimensioni dei vari elementi portano a escludere che siano stati prodotti tutti nella medesima bottega; inoltre, l’esemplare pavese, con la sua elaborata decorazione, spicca evidentemente come il pezzo di qualità più elevata. Fig. 13 – Londra, British Museum: cucchiaio tipo “ligula” del tesoro di Cartagine (da BARATTE, 2002, figg. 62, 63 e 65). chezza degli apparati decorativi e lo spesso profilo dei piattelli (costante negli esemplari noti), inadatto a essere accostato direttamente alle labbra, suggeriscono che si trattasse di posate comuni, a disposizione dei commensali per prendere cibi liquidi o immersi nei condimenti (cfr. AI- Fig. 14 – Londra, British Museum: attingitoio del tesoro di Hoxne (da JOHNS, The Hoxne Late Roman Treasure cit., fig. 5.31). 19 3. Frammento (fig. 3) Arte tardoromana. Frammento di stelo verticale sagomato, appartenente a una coppa (?). Numero d’inventario OR 68 / St. 9947. Argento fuso entro matrice, rifinito al tornio e polito; saldatura delle parti componenti l’oggetto; decorazioni incise nel metallo. Altezza attuale: 3,9 cm; diametro massimo del piattello frammentario: 7,1 cm; diametro massimo e altezza dello stelo: 2,6 e 2,4 cm; peso: 76,7 g (allo stato attuale). Dell’oggetto, difficile da identificare in quanto fortemente lacunoso, rimangono un elemento verticale a stelo modanato e un lacerto della parte mediana di un recipiente non molto profondo, stando a quanto se ne intuisce dalla curvatura della porzione superstite. Lo stelo, internamente cavo, è articolato in un elemento centrale a forma di nodo campaniforme unito al recipiente mediante un tassello a gola: le superfici esterne sono decorate da sottili linee parallele, incise nel metallo, simili a quelle che bordano il punto di attacco con il piattello. Quest’ultimo presenta al centro della faccia superiore una cavità circolare inscritta in una cornice: si tratta, con ogni probabilità, del punto di fissaggio al tornio su cui questo elemento, fuso in una matrice, è stato rifinito e polito; anche lo stelo è stato fuso e rifinito al tornio, con lo spianamento delle superfici (accuratamente polite) e l’incisione dei semplici decori lineari. Le due parti sono state saldate fra loro, come indicano tracce visibili nella cavità interna dello stelo. Nessuna indicazione si ricava circa gli elementi presenti sul lato opposto (un piede troncoconico? un ulteriore tratto del supporto verticale?), essendo lo stelo spezzato poco sotto la base del nodo. Oltre alla rottura delle lamine, l’oggetto si presenta coperto di bolli e graffi, in numero maggiore rispetto al piatto e al cucchiaio, possibile indizio di un uso più prolungato nel tempo. La forma a campana del nodo e la scarsa concavità del piattello sembrano escludere una identificazione come coppa eucaristica: gli esemplari noti di tali suppellettili da altare presentano invariabilmente nello stelo un nodo sferico (quando presente) e recipienti di profondità decisamente maggiore (schedatura degli esemplari noti in V.H. ELBERN, Der eucharistische Kelch im frühen Mittelalter, in “Zeitschrift des Deutschen Vereins für Kunstwissenschaft”, 17/1-2, pp. 1-76, e 17/3-4, 1963, pp. 177-188; e in V.H. ELBERN, Der Eucharistische Kelch im frühen Mittelalter. Neue Funde und Forschungen, in “Arte Medievale”, s. II, IX/1, 1995, pp. 1-49). È più verosimile pensare a una “alzata” del tipo già descritto a proposito del piatto, oppure, con minore probabilità, al coperchio con manico di una coppa dal corpo globulare di un tipo presente nei tesori di Canoscio e 20 di Cartagine, oltre che in quello di Viminacium / Kostolac, in Serbia (fig. 15; cfr. STRONG, Greek and Roman Gold and Silver Plate cit., p. 204; BARATTE, 2002, pp. 35-47): dotati di alti manici, questi coperchi potevano essere usati in posizione capovolta, servendo così anch’essi da “alzate” per imbandire i cibi tenuti in caldo in quei recipienti chiusi. La datazione di questo genere di coppe è stata fissata fra la seconda metà del V secolo e la prima metà del VI, una cronologia che potrebbe essere valida anche per questo frammento, se non fosse per un dettaglio significativo: la peculiare forma del nodo. L’unico confronto puntuale si ha con lo stelo di una coppa del ricco tesoro scozzese di Traprain Law (fig. 16), composto da un vasto campionario di argenterie e complementi di vestiario ridotti in frammenti, probabilmente un bottino predato in territorio romano e poi sepolto al di là del Vallo di Adriano (A.O. CURLE, The Treasure of Traprain. A Scottish Hoard of Roman Silver Plate, Glasgow 1923, n. 13 pp. 28-30). La coppa in questione, parte di un set di sei esemplari (ciascuno caratterizzato da uno stelo articolato in modo diverso), presenta una coppella poco profonda e un’ampia base piana quadrangolare, unite da un sottile cilindretto sagomato a nodi identici a quello pavese: se posta in questo senso, doveva servire da coppa per il vino; se rovesciata, poteva fungere da “alzata” per cibi solidi (così BARATTE, 2002, pp. 47-49). Ipotizzando che il frammento di Pavia sia appartenuto a un recipiente simile a quello di Traprain Law, allora la sua datazione andrebbe rialzata al IV secolo, dato che il tesoro scozzese fu sepolto all’inizio del V; ma quanto di esso rimane non permette di scegliere con sicurezza fra i confronti proposti, così come non è possibile precisare il suo luogo d’origine. Fig. 15 – Belgrado, Narodni Muzej: coppa del tesoro di Viminacium (da BARATTE, 2002, fig. 42). Fig. 16 – Edimburgo, National Museum of Scotland: coppa del tesoro di Traprain Law (da BARATTE, 2002, fig. 44). Contesto e significato del ritrovamento Al termine dell’analisi degli oggetti, è possibile formulare alcune considerazioni generali sul ritrovamento e sul suo contesto anche alla luce del dibattito, sviluppatosi negli ultimi decenni, circa il valore quale fonte storica a tutti gli effetti dei tesori emersi dal terreno: una tipologia di manufatti non facile da interpretare, ma potenzialmente ricca di informazioni sulla società in cui tali preziosi erano stati creati, utilizzati, raccolti insieme e, infine, sepolti (cfr. in particolare M. MARTIN, Wealth and Treasure in the West, 4th-7th Century, in The transformation of the Roman World. A. D. 400 - 900, edited by L. WEBSTER - M. BROWN, London 1997, pp. 48-66; i saggi raccolti in Tesori. Forme di accumulazione della ricchezza nell’alto medioevo (V-XI), a cura di S. GELICHI - C. LA ROCCA, Roma 2004; e il vasto contributo di R. HOBBS, Late Roman Precious Metal Deposits c. AD 200-700. Changes over Time and Space, Oxford 2006). Questo dibattito ha interessato anche i ritrovamenti di preziosi in area italica, specialmente quelli riferibili ai tormentati anni tra la fine dell’Impero d’Occidente e l’invasione longobarda (prima sintesi in BALDASSARRI - FAVILLA 2004; cfr. anche AIMONE 2010, pp. 260-291), e ad esso il presente riesame del tesoretto di San Michele Maggiore offre ulteriori spunti. Benché neppure uno dei tre manufatti pavesi sia identificabile come suppellettile liturgica, la loro scoperta presso una chiesa tanto prestigiosa, cappella palatina e luogo di incoronazione dei reges italici (cfr. A. PERONI, San Michele di Pavia, Milano 1967, pp. 13-19), lascia aperta la possibilità che essi appartenessero al suo tesoro. I documenti altomedievali hanno conservato memoria di cospicue donazioni di argenterie domestiche a istituzioni religiose, in primo luogo per il valore materiale del metallo, e prescindendo dalle forme degli oggetti stessi, a volte persino ornati di immagini mitologiche (J. ADHÉMAR, Le trésor d’argenterie donné par Saint Didier aux églises d’Auxerre (VIIe siècle), in “Revue Archéologique”, 6eme série, IV, 1934, pp. 44-54; F. BOUGARD, Tesori e mobilia italiani nell’alto Medioevo, in Tesori. Forme di accumulazione della ricchezza cit., pp. 69122; C. LA ROCCA, Tesori terrestri, tesori celesti, in ibidem, pp. 123-141); né bisogna dimenticare che, a partire dal IV secolo, il clero più facoltoso aveva adottato molti dei simboli di rango propri dell’aristocrazia, primo fra tutti le sontuose argenterie da mensa (D. JANES, God and Gold in Late Antiquity, Cambridge 1998, pp. 153-164; F. BARATTE, À la table des évêques: remarques sur le luxe ecclésiastique à la fin de l’Antiquité, in Di cotte e di crude. Cibi, culture, comunità. Atti del convegno internazionale di studi, Vercelli - Pollenzo, 15-17 marzo 2007, a cura di G. TESIO - G. PENNAROLI, Torino 2008, pp. 293-308). A questo proposito, il simposio aristocratico, inteso come momento forte di coesione sociale, aveva conservato intatto nel mondo tardoromano e protobizantino quel carattere ufficiale, o semiufficiale, che aveva avuto fin dalla tarda Repubblica: in tale ambito gli argenti da mensa, orgogliosamente esibiti nei fastosi triclini dalle élite (latine, greche o germaniche; laiche o ecclesiastiche che fossero), rappresentavano un segno insostituibile di potere, di ricchezza e di status (cfr. BARATTE, Il vasellame prezioso nella tarda antichità cit.; MUNDELL MANGO, Silver Plate among the Romans cit.; K.M.D. DUNBABIN, The Roman Banquet. Images of Conviviality, Cambridge 2003; e LEADER-NEWBY, Silver and Society in Late Antiquity cit.). Nonostante l’apparente esiguità del ritrovamento di San Michele Maggiore, esso offre un fondamentale elemento per intuire quale raffinato stile di vita le classi dominanti pavesi esibissero nei secoli di passaggio fra Antichità e Medioevo. In base ai pochi dati riferiti in merito alla scoperta, si può dedurre che l’occultamento sia avvenuto durante l’alto Medioevo, comunque prima del XII secolo, l’epoca più recente a cui potrebbe risalire la tomba a cappuccina che copriva lo strato del tesoretto; la datazione tardoantica del frammento n. 3, non medioevale o rinascimentale come già ipotizzato, esclude per il seppellimento una cronologia così tarda. Inoltre, il carattere frammentario dei tre oggetti permette di inserirli nella casistica dei tesori com21 posti dalle, o comprendenti le cosiddette “argenterie frantumate” (Hacksilber in tedesco), un tipo di ritrovamento di interpretazione complessa, in questo caso da collegare evidentemente non con bottini o con deposizioni rituali, ma più semplicemente con la volontà di proteggere oggetti di valore usurati a causa di un impiego prolungato (cfr. da ultimo K. PAINTER, Hacksilber: a means of exchange?, in Late Roman Silver. The Traprain Treasure cit., pp. 215-242, con discussione del tema e bibliografia di riferimento). Come i frammenti di missorio facenti parte del tesoro di Reggio Emilia, composto da oreficerie e argenterie, anche questo avrebbe potuto essere utilizzato come mezzo di pagamento al posto del corrispondente valore in monete (cfr. I. BALDINI LIPPOLIS - J. PINAR GIL, Osservazioni sul tesoro di Reggio Emilia, in Ipsam Nolam barbari vastaverunt. L’Italia e il Mediterraneo occidentale tra il V secolo e la metà del VI. Atti del Convegno internazionale di studi, Cimitile - Nola - Santa Maria Capua Vetere, 18-19 giugno 2009, a cura di C. EBANISTA - M. ROTILI, Cimitile 2010, pp. 120-121 e 124). La tipologia del cucchiaio e i confronti proposti ne fissano la fabbricazione negli anni della monarchia ostrogota di Teoderico, o al più tardi del dominio bizantino; tuttavia, la tecnica decorativa basata sul contrasto fra niello e doratura, il repertorio dei motivi geometrico-floreali e la stessa qualità di esecuzione del fregio rimandano direttamente alle migliori creazioni dell’argenteria tardoromana del IV secolo: fra i regni di Costantino (306337) e di Teodosio I (379-395), l’arte dell’argento conobbe in tutto il Mediterraneo un’autentica fioritura, e di essa una delle espressioni più significative furono precisamente i fregi con figure dorate su fondo nero, in ossequio a quel gusto per il contrasto cromatico così caratteristico dell’arte tardoantica (A. RIEGL, Industria artistica tardoromana, Firenze 1953, pp. 217-304; BARATTE, Il vasellame prezioso nella tarda antichità cit., pp. 20-24 e 29-31; PIRZIO BIROLI STEFANELLI, L’argento dei Romani cit., pp. 33 e 87110). Per il fregio entro il piattello del cucchiaio pavese con rombi e cerchi, pur nell’ambito di un repertorio decorativo abbastanza standardizzato, si può indicare un antecedente preciso: la fascia decorativa attorno il campo mediano del “vassoio di Arianna”, uno dei pezzi più spettacolari del tesoro di Kaiseraugst, creato nella prima metà del IV secolo in una bottega situata nel Mediterraneo occidentale (fig. 17; F. BARATTE, Ariadnetablett, in CAHN - KAUFMANN-HEINIMANN, Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst cit. vol. I, pp. 194-205); anche un frammento di brocca dal tesoro di Traprain Law reca una serie di fasce con il motivo del cerchio e del rombo, in quel caso però non alternati, ma affiancati in campi contigui (fig. 18; CURLE, The Treasure of Traprain cit., n. 4 pp. 22-24). La probabile origine nella penisola di questo cuc22 chiaio costituisce una prova dell’alto livello raggiunto dagli argentarii italici nella produzione di oggetti preziosi, sull’onda di un impulso che le fonti attribuiscono all’iniziativa del re Teoderico, desideroso di accrescere in questo modo la gloria del proprio regno, con risultati confermati da altri ritrovamenti archeologici quali il più volte citato tesoro di Desana (cfr. M. LECCE, La vita economia dell’Italia durante la dominazione dei Goti nelle “Varie” di Cassiodoro, in “Economia e storia”, 4, 1956, pp. 369-374; L. RUGGINI, Economia e società nell’“Italia annonaria”. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d. C., Milano 1961, p. 552; e F. GIUNTA, Gli Ostrogoti in Italia, in Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984, pp. 77-78); inoltre, il rifarsi a prestigiosi modelli del IV secolo indica a quali fonti di ispirazione – tecnica, oltre che artistica – guardassero allora gli artigiani dei metalli preziosi attivi nella penisola. Proprio i dettagli tecnici osservabili sui cucchiai di questo tipo scoperti a Pavia, Desana e Canoscio, che portano a escludere che siano stati lavorati nella stessa bottega, suggeriscono implicitamente una pluralità di centri di produzione nella penisola; invece, l’assenza sistematica dei bolli di controllo dell’autorità statale italica, prima ostrogota, poi bizantina, nei decenni in cui tale sistema era impiegato su larga scala nell’Impero romano d’Oriente, sembra dimostrare che nella penisola la circolazione del metallo prezioso fosse monitorata in modi differenti, non ancora individuati (cfr. CRUIKSHANK DODD, Byzantine Silver Stamps cit., pp. 1-45; EFFENBERGER, Silbergefäße in der Spätantike cit., pp. 49-53; e M. MUNDELL MANGO, The Purpose and Places of Byzantine Silver Stamping, in Ecclesiastical Silver Plate in the Sixth-Century Byzantium. Papers Fig. 17 – Augst, Museum Augusta Raurica: motivo decorativo niellato e dorato del “vassoio di Arianna” del tesoro di Kaiseraugst (da CAHN - KAUFMANN-HEINIMANN, Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst cit. vol. II, tav. 115). Fig. 18 – Edimburgo, National Museum of Scotland: motivo decorativo niellato e dorato di una brocca del tesoro di Traprain Law (da CURLE, The Treasure of Traprain cit., fig. 7). of the Symposium, Baltimore - Washington, 16-18 May 1986, edited by S. BOYD - M. MUNDELL MANGO, Washington 1992, pp. 203-216). Diversamente dal cucchiaio, il piatto denota un influsso dei tipi ornamentali creati nel Mediterraneo orientale dalla fine del V secolo, tra i quali quello con croce (e, meno frequentemente, con monogramma) entro corona fogliacea aveva goduto di vasta fortuna, come dimostrano i ritrovamenti in tutta l’ecumene legata politicamente o culturalmente a Bisanzio: valga come esempio fra i tanti un piatto dalla tomba principesca di Malaja Pereščepina (Ucraina), prodotto a Costantinopoli sotto il regno di Eraclio (610-641), che fra l’altro reca ancora la classicheggiante decorazione a baccellature radiali (fig. 19; scheda in Spätantike und frühbyzantinische Silbergefäße cit., n. 15 pp. 125-127). In tale ricorrenza della croce anche su argenterie domestiche, chiaro segno di una profonda cristianizzazione della società, si è voluto però vedere anche il riflesso di un fenomeno caratteristico del mondo bizantino nel VI secolo, un “pre-iconoclasmo” diffuso specialmente in Anatolia, ma che nella capitale si era manifestato a livello monumentale nella decorazione musiva aniconica voluta dall’imperatore Giustiniano (527565) per la sua Santa Sofia (cfr. M. ANDALORO, Percorsi iconici e aniconici dal VI secolo all’iconoclastia: le pitture della chiesa di Küçük Tavsan Adasï in Asia Minore, in Le vie del Medioevo. Atti del Convegno internazionale di studi, Parma, 28 settembre - 1 ottobre 1998, a cura di A.C. QUINTAVALLE, Parma 2000, pp. 73-86). Riflessi di questa corrente artistico-religiosa erano giunti in Italia ancora prima che la penisola fosse ridotta dalla conquista giustinianea al rango di provincia, al tempo della monarchia ostrogota: oggetti importati, ad esempio il piatto di Kaukana, erano stati un veicolo diretto per la diffusione di tali modelli, stilisticamente lontani da quelli di tradizione tardoromana apprezzati in Italia in quei decenni, come prova il caso del cucchiaio prima discusso. Se gli argenti di Canoscio sono imitazioni (e rielaborazioni) italiche di oggetti importati, il piatto di Pavia, di fattura inferiore, va comunque interpretato come un prodotto destinato a una clientela desiderosa di esibire nelle proprie dimore quanto allora era considerato “all’ultima moda” in materia di lusso; e, sotto questo aspetto, nel VI secolo tanto nelle regioni bizantine quanto nei regni romano-barbarici si guardava alla capitale d’Oriente come al cuore del mondo civilizzato. Anche fra i piatti decorati con croci e corone scoperti in Italia sono evidenti variazioni di qualità e di tecnica tali da presupporre una pluralità di botteghe e di centri di produzione, attraverso cui si può dedurre una vivace situazione per l’artigianato suntuario della penisola fra il V e il VI secolo (quadro generale in FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia cit., pp. 139-216 e 333-360; e, per i soli argenti, in F. BARATTE, Les ateliers d’argenterie dans l’Antiquité tardive. Données actuelles, in Felix Temporis Reparatio. Atti del convegno archeologico internazionale “Milano capitale dell’Impero Romano”, Milano, 811 marzo 1990, a cura di G. SENA CHIESA - E. ARSLAN, Milano 1992, pp. 87-101); ciò è in parziale contrasto con l’immagine, proposta specialmente sulla base delle fonti scritte, di un’Italia allora devastata da invasioni e da guerre, ridotta a uno stato di generale miseria (cfr. l’equilibrata analisi di F. MARAZZI, The Destinies of Late Antique Italies: Politico-economic Developments of the Sixth Century, in The Sixth Century. Production, Distribution and Demand, a cura di R. HODGES - W. BOWDEN, Leiden - Boston - Köln 1998, pp. 119-159). Nelle sue indagini sulle gioiellerie tardoantiche e altomedievali rinvenute nel territorio pavese, Peroni ha posto l’accento sul verosimile ruolo di questo primario centro istituzionale come luogo di produzione e di diffusione di oggetti preziosi (A. PERONI, Oreficerie e metalli lavorati tardoantichi e altomedievali del territorio di Pavia, Spoleto 1967; cfr. anche PERONI, 1984): la scelta di Pavia prima come residenza imperiale temporanea (in concorrenza con Milano e Aquileia), poi come sede delle corti ostro23 cerca in queste direzioni: benché gli eventi storici di cui Pavia fu teatro, fra la caduta dell’Impero d’Occidente e il consolidamento del dominio longobardo, rimangano sullo sfondo del tesoretto di San Michele Maggiore, senza che sia possibile collegarli direttamente al suo assemblaggio o al suo seppellimento, esso contribuisce a gettare una vivida luce sul contesto sociale, culturale, economico e artistico nel quale questi oggetti furono realizzati e, di riflesso, sui loro creatori e sui loro possessori. Bibliografia Fig. 19 – San Pietroburgo, Ermitage: piatto da Malaja Pereščepina (da Spätantike und frühbyzantinische Silbergefäße cit., fig. 36). gota (in concorrenza con Ravenna e Verona) e longobarda (ancora in concorrenza con Milano), aveva comportato la presenza in città di orafi e argentieri in servizio presso la zecca, ma probabilmente attivi anche su commissione dei funzionari e degli aristocratici legati in vario modo ai sovrani e alla Chiesa locale, con una circolazione di ricchezza destinata a confluire, almeno in parte, nelle mani del clero, senza che il succedersi delle dominazioni avesse messo seriamente in crisi tali flussi economici (cfr. L. CRACCO RUGGINI, Ticinum: dal 476 d. C. alla fine del Regno Gotico, in Storia di Pavia, vol. I. L’età antica, a cura della Banca del Monte di Pavia, Milano 1984, pp. 271-312; e G.P. BROGIOLO, Capitali e residenze regie nell’Italia longobarda, in Sedes regiae (ann. 400-800), a cura di G. RIPOLL J.M. GURT, Barcellona 2000, pp. 135-162). Mentre le corti e le istituzioni ecclesiastiche di Milano e di Ravenna tardoantiche sono state ampiamente indagate dal punto di vista storiografico, socioeconomico e della cultura materiale, quelle coeve di Ticinum / Pavia hanno suscitato meno l’interesse degli studiosi, forse perché la città non ha conservato resti altrettanto monumentali di quel periodo; tuttavia, gli argenti qui riesaminati offrono un significativo punto di partenza per approfondire la ri- A. PERONI, Argenti paleocristiani ritrovati presso San Michele Maggiore a Pavia. Rapporto preliminare, in Archeologia e storia nella Lombardia padana: Bedriacum nel XIX centenario delle battaglia. Atti del Congresso (Varenna, 3-4 giugno 1969), a cura di P. CAIROLI, Como 1972, pp. 157-169 V. BIERBRAUER, Die ostgotischen Grab- und Schatzfunde in Italien, Spoleto 1975 (Biblioteca degli “Studi Medievali”, VII) V. BIERBRAUER, Reperti ostrogoti provenienti da tombe o tesori della Lombardia, in I Longobardi e la Lombardia. Saggi. Catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, dal 12 ottobre 1978), San Donato Milanese 1978, pp. 213-240 A. PERONI, Tracce di oreficeria tardoantica e ostrogota, in Storia di Pavia, vol. I. L’età antica, a cura della Banca del Monte di Pavia, Milano 1984, pp. 341-345 B. MONTEVECCHI, I vasi sacri, in Suppellettile ecclesiastica, I, a cura di B. MONTEVECCHI - S. VASCO ROCCA, Firenze 1988 (Dizionari terminologici, 4), pp. 97-205 P.J. HUDSON, Tesoretto liturgico di San Michele Maggiore, in Milano capitale dell’Impero Romano, 284-402. Catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 24 gennaio - 22 aprile 1990), Milano 1990, p. 176. M. DI BERARDO, Utensili liturgici, in Enciclopedia dell’arte medievale, vol. XI, Roma 2000, pp. 450-465 F. BARATTE, Le trésor de Carthage. Étude raisonnée. 1. La vaisselle d’argent, in F. BARATTE - J. LANG - S. LA NIECE - C. METZGER, Le trésor de Carthage: contribution à l’étude de l’orfèvrerie de l’Antiquité tardive, Paris 2002 (Études d’antiquités africaines), pp. 14-75 M. BALDASSARRI - M.C. FAVILLA, Forme di tesaurizzazione in area italiana tra tardo antico e alto medioevo: l’evidenza archeologica, in Tesori. Forme di accumulazione della ricchezza nell’alto medioevo (V-XI), a cura di S. GELICHI - C. LA ROCCA, Roma 2004 (Altomedioevo, 3), pp. 143-205 M. AIMONE, Il tesoro di Desana. Una fonte per lo studio della società romano-ostrogota in Italia, Oxford 2010 (BAR International Series, 2127) M. AIMONE, Il tesoro di Canoscio e le argenterie italiche di VI secolo. Nuove prospettive di ricerca, in Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto medioevo. Atti del Convegno internazionale di studi (Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012), a cura di C. EBANISTA, in corso di stampa Marco Aimone 24